domenica 14 luglio 2013

Ruote con raggi ai confini indo-iranici nel III millennio a.C.

 
A Roma, non lontano dalla Stazione Termini, esiste un bellissimo museo, il Museo Nazionale d'Arte Orientale 'Giuseppe Tucci' (http://museorientale.beniculturali.it/) che ospita, tra le altre cose, una ricca collezione di oggetti dagli scavi archeologici di Shahr-i Sokhta, la 'Città Bruciata', importante sito nell'Iran orientale sul fiume Helmand, ai confini con Pakistan e Afghanistan, scoperto da Maurizio Tosi e risalente all'età del Bronzo (dal 3200 a.C.). L'avevo già citata a proposito dei dadi particolarmente antichi lì scoperti, e qui posso mostrare un'immagine di un dado con pedine che ho potuto fotografare al museo:
 
 
 
Ma l'oggetto che più mi ha colpito nella collezione (non per il valore estetico) si può vedere in questa teca.
A destra, c'è una ruota con raggi, datata non precisamente, ma di certo anteriore al 2200 a.C., quindi precedente alle famose ruote con raggi di Sintashta, e probabilmente contemporanea con le simili ruote giocattolo con raggi della civiltà harappana già discusse in un precedente post. Questo dato, che sembra sfuggito alla conoscenza divulgata in proposito (vedi ad es. qui e il libro di Anthony), può essere una prova ulteriore che le ruote con raggi sono state inventate tra India e Iran nel terzo millennio a.C., e poi esportate verso Sintashta e altre zone dell'Eurasia a cavallo tra il terzo e il secondo millennio a.C.
E quindi, il supposto arrivo degli Arii con i loro carri e cavalli dalle steppe eurasiatiche verso l'India e l'Iran si rivelerebbe non solo una volta di più un mito, ma un rovesciamento della storia (su simili rovesciamenti, e Sintashta come recettore di impulsi dall'Asia centrale meridionale, se non vera e propria colonia della Battriana dell'età del Bronzo, si veda l'ultimo post di New Indology).
Da notare anche gli zebù a sinistra: animali di origine sudasiatica, già domesticati nella Mehrgarh neolitica, si diffusero nell'Asia centrale almeno a quell'epoca, raggiungendo l'Azerbaijan, la Mesopotamia, l'Anatolia, e forse anche l'Ucraina (vedi questo altro post di New Indology).  
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

domenica 6 gennaio 2013

Dadi e cani tra India e Grecia




Nell'imponente libro di Bernard Sergent Les Indo-Européens si trova anche un capitolo sui giochi, che inizia dai dadi, definiti "il gioco di gran lunga meglio attestato nelle culture indoeuropee, e con una tale frequenza e una tale espansione che non può non riposare su di un'eredità comune". Si osserva che era presente nell'antichità in Grecia, in Macedonia, in India, in Iran, presso i Germani, in Lidia, a Roma, e che in quasi tutti questi popoli, aveva un'estrema importanza. In Grecia, è il gioco più evocato dalla letteratura. In Lidia, se ne attribuivano l'invenzione: secondo Erodoto (I.94), durante una carestia i Lidi avrebbero inventato il gioco dei dadi, degli astragali, della palla e così via (tutti eccetto gli scacchi) per dimenticare la fame un giorno su due. Infine, una parte sarebbero emigrati in Italia sotto la guida di Tirreno, per diventare gli Etruschi.
A Roma, continua Sergent, una leggenda poneva l'origine del fondatore della città in una partita a dadi tra il sacerdote di Ercole e il suo dio. Presso i Germani, ci dice Tacito (Germania 24), si giocava con tale serietà e accanimento, che quando si era perso ogni avere, si metteva come posta la propria libertà, riducendosi schiavi in caso di sconfitta. Qualcosa di analogo accade a Yudhiṣṭhira, il re dei Pāṇḍava, nel grande poema epico indiano, il Mahābhārata, dove in una partita a dadi egli mette in gioco il regno, i suoi fratelli, se stesso e sua moglie (vedi l'illustrazione sopra, tratta da un manoscritto persiano). Anche in RV. X.34, il celebre 'lamento del giocatore', nella str.4 accenna al giocatore portato via legato come uno schiavo. In Grecia, il gioco serviva alla divinazione, lo stesso presso i Balti antichi, nella divinazione medica, e un antico testo indiano, dice Sergent senza specificare, descrive un oracolo realizzato per mezzo di dadi. Anche i sacerdoti della tribù slava dei Retrani facevano oracoli con dadi (e cavalli). Il gioco dei dadi appare come un gioco regale in Macedonia e nella Persia achemenide, come lo era in India, dove era talmente importante che le epoche della storia prendono il nome dai punti dei dadi: Kali, il punto peggiore, dà il nome alla nostra età degenerata. 
Ma qual è il significato di kali? Il dizionario di Monier Williams dà come primo proprio quello del 'dado o lato del dado segnato con un punto, il dado perdente'. Il dizionario pali della Pali Text Society dà 'il dado sfortunato; un tiro sfortunato ai dadi, sfortuna, demerito, peccato; peccaminoso, peccatore; saliva, sputo'. Questi significati nel pali, che era più vicino alla lingua parlata rispetto al sanscrito, fanno pensare a un concetto di sfortuna e impurità, che è stato identificato con il dado perdente del gioco con le noci Vibhītaka, provenienti dall'albero Terminalia Bellerica, considerato come infestato dai demoni. Se si considera poi che in origine i dadi erano probabilmente usati per la divinazione, e che il numero dispari delle 'sorti' (anche noci) era associato alla sfortuna (vedi qui), questa interpretazione acquisisce ancora più verosimiglianza. Il termine kali può essere etimologicamente ricondotto all'oscurità e all'impurità: kalana significa 'macchia, difetto'; kalaṅka 'macchia, segno, sporco; calunnia'; kaluṣa 'torbido, disgustoso, impuro, sporco; sporcizia, impurità, peccato'; kalka 'sporco, impurità, falsità, inganno, peccato', e, guarda caso, designa anche la Terminalia Bellerica. Un parallelo indoeuropeo si potrebbe anche trovare nel greco kēlis 'macchia; onta, infamia', il latino caligo 'oscurità', e calumnia. Ma il confronto più interessante è quello con il nome dato al punteggio più basso dei dadi in latino, ovvero canis o canicula, e in greco, kyōn, che significa sempre 'cane'. Si è trovato persino un dado, a Taranto, con scritto ky(ōn) al posto dell'uno o asso, qui riprodotto.
Ora, già nel gveda il giocatore vittorioso e esperto era detto śvaghnin 'uccisore di cani o del cane', il che, confrontandolo con il linguaggio greco-romano, potrebbe significare che era capace di evitare tiri sfortunati. A quanto pare il cane, probabilmente come animale infausto, era associato alla perdita nei dadi. In Śatapatha Brāhmaṇa XIV.1.1.31 esso, insieme all'uccello nero (il corvo), è identificato con la falsità (anṛta, l'opposto dello ṛta, la Verità-Ordine), con l'oscurità e con il male (pāpman, che significa anche sfortuna o peccato). In Taittirīya Brāhmaṇa III.4, all'interno del grande rituale del sacrificio del cavallo, si richiede l'uccisione di un cane 'dai quattro occhi', in quanto, si spiega, il cane è il male (śvā́ iva vái pāpmā́). Cosa sia questo cane è discusso nell'articolo di David Gordon White 'Dogs Die'. A p.285, questi nota che in genere è spiegato come un cane con macchie chiare sopra gli occhi. Una nota a Śatapatha Brāhmaṇa XIII.1.2.9 dice però che un tale cane era solo un sostituto di un cane con due volti (anomalia rara ma non impossibile). White cita tuttavia anche un passo dell'Avesta a proposito di un rito funerario in cui si usa un cane con quattro occhi, che secondo i dizionari dell'Avesta indica un cane con due macchie sopra gli occhi. La cosa significativa è che anche i cani infernali di Yama hanno quattro occhi, come in RV. X.14.10-11. Forse anche qui è sottinteso che hanno due volti, in modo simile al Cerbero greco? Potrebbe confermarlo il paragone con RV. X.99.6, dove troviamo un demone 'con sei occhi e tre teste', descrizione che troviamo anche nell'Avesta, Yn. 9.8, per il drago Aži Dahāka. Comunque, che vi sia una forte affinità tra Cerbero e i cani di Yama è suggerito, oltre che dal ruolo di guardiani del regno dei morti, dall'etimologia: il greco kerberos corrisponde al nome vedico di uno o entrambi i cani: śabála, che significa 'variegato, pezzato, macchiato'. A prima vista la corrispondenza può sembrare dubbia, eppure abbiamo una serie di termini in antico indiano che si accostano molto da vicino al termine greco, tra cui karbara, che significa sempre 'variegato, macchiato', ed è anche il nome di un demone. Un aspetto molto interessante è che queste varianti dello stesso aggettivo (si aggiungano karvara, karbura, kavara) rivelano l'esistenza di forme centum accanto a quelle, normali per l'antico indiano, di tipo satem (oltre a śabala, śavala, śabara e śavara). La cosa comunque non dovrebbe apparire inaudita, visto che anche nella lingua himalayana Bangani si trovano forme centum. Notevole che, come altre forme centum in antico indiano, si tratti di termini attestati in opere post-vediche o addirittura in lessici, come se la satemizzazione fosse un fenomeno tipico della lingua vedica, che era più vicina all'iranico con cui condivide tale evoluzione, mentre aree isolate lontane dalla regione vedica originaria (l'India nordoccidentale e la valle dell'Indo) possono aver sviluppato forme centum più vicine al protoindoeuropeo, parallele alla forma greca. La quale, da parte sua, risulta essere un residuo arcaico, ormai incomprensibile ai Greci stessi (vedi qui), tramandato come i nomi degli dèi.

Dadi harappani
             
A proposito dell'archeologia, secondo un sito dedicato ai giochi, il primo dado cubico identificato risale al tardo V millennio a.C. in Siria, il che non dovrebbe essere connesso con civiltà indoeuropee. Sergent, che ha pubblicato il testo nel 1995, ci dice che i dadi più antichi del mondo sono attestati ad Altyn Tepe, in Turkmenistan, verso la fine del IV millennio, ma non ho trovato conferma a questa informazione. Guardando in rete (vedi qui), la nozione più diffusa sembra essere che Shahr-i-Sokhta, nell'Iran sudorientale (Seistan), sia il luogo del ritrovamento dei dadi più antichi, attribuiti al 3000 a.C. (ma la data non sembra avere riferimenti precisi) e di forma cubica (vedi qui). Nello stesso sito, si sono trovati dadi rettangolari insieme a pedine e scacchiera, in una tomba del periodo III (2500-2300 a.C.), come riporta Vidale nel libro, già citato in un altro postA oriente di Sumer, pp.94-95.
 Anche nei siti harappani si trovano sia dadi cubici (come quelli nell'immagine qui sopra) che rettangolari con 4 facce numerate, e tale tipo rettangolare compare anche a Gonur Depe in Margiana (vedi qui), nel periodo Namazga V (2500-2000 a.C.), dove sono considerati come importazioni dalla civiltà dell'Indo. E' interessante che i dadi cubici harappani presentano due varianti (come riporta questo libro): alcuni hanno, diversamente dai nostri, il 6 opposto al 5, e non all'1, come si può vedere anche nella foto, ma un altro di quelli di Harappa ha la numerazione come quelli moderni e (in parte) greco-romani.
Uno studio svedese dimostra anche la frequenza di tali oggetti: un ritrovamento su dieci a Mohenjo-daro risulta legato a giochi, e con una distribuzione spaziale che suggerisce dei luoghi dedicati, quelli che nell'India storica erano detti sabhā
Sembra quindi che nell'area tra il Turkmenistan, il Seistan e l'India, abbiamo abbondanza di dadi in età molto antica, il che può concordare con l'importanza data a questo gioco dagli Indoeuropei, come nota Sergent. Egli nota anche che in Scozia dei dadi sono stati trovati in livelli dell'età del bronzo, quindi indipendentemente dall'influenza greca o romana. Secondo un altro studioso francese, Thierry Depaulis, i dadi oblunghi si trovano presso Indiani, Celti e Germani, meno presso Greci e Romani. Da dove hanno ereditato Celti e Germani questo gioco? Forse dall'Asia centrale stessa, da cui provenivano originariamente? Questi dettagli, soprattutto se si inseriscono in un'ideologia condivisa, come mostra Sergent, possono rivelare storie di vasta portata. La partita è aperta...   

Achille e Aiace giocano a dadi