sabato 1 ottobre 2011

Il Simposio dei giovani indologi a Parigi e l'avvenire dell'indologia

 
 
Ieri si è concluso, qui a Parigi, il terzo "International Indology Graduate Research Symposium" (vedi http://iigrs.byethost17.com/), iniziativa partita dall'Inghilterra, che ha coinvolto molti brillanti indologi italiani ormai sparsi per l'Europa, come gli studiosi di grammatica sanscrita Paolo Visigalli e Giovanni Ciotti, gli studiosi di filosofia Marco Ferrante, Daniele Cuneo e Elisa Ganser, e lo studioso di letteratura indo-persiana Svevo D'Onofrio. Oltre a loro, erano presenti studiosi britannici, francesi, tedeschi, cinesi, un'americana e l'implacabile Pandit indiano Gopabandhu Mishra, professore di sanscrito all'Università 'Paris 3', che ha messo alla prova con i suoi rapidissimi śloka (strofe sanscrite) quasi ogni oratore.

L'impressione generale è quella che l'indologia sia una disciplina molto articolata, che comprende linguistica, logica, metafisica, storia, filologia, epigrafia, antropologia sociale e religiosa, per di più suddivisa tra le tradizioni brahmanica (con tutte le sue suddivisioni interne), buddhista, giainista, islamica... un ascoltatore esperto di una branca dell'indologia si troverà facilmente spaesato in un'altra. Si può arrivare alla conclusione, come mi ha detto l'amico tedesco Sven Wortmann che ha partecipato al convegno, che l'indologia non è una disciplina. In effetti, come può lo studio di una civiltà configurarsi come una disciplina unica? E' vero che quello che accomuna gli studi presentati in questo convegno è generalmente un riferimento filologico al testo, ma i testi stessi possono essere di generi talmente differenti da rendere l'idea di un'unica 'scienza' indologica piuttosto improponibile. In ambito di studi classici, non esiste un'Ellenologia o una Latinologia. Esiste Letteratura greca, che può comprendere qualsiasi testo, ma si concentra su quelli a intento più specificamente letterario, e poi Storia greca, Filosofia greca, Filologia greca, Epigrafia greca, Papirologia... Ovviamente, il maggiore interesse in Occidente per la cultura greca ha permesso lo svilupparsi di una tradizione accademica più articolata.
D'altronde, è vero che non bisogna eccedere con le specializzazioni, e la civiltà indiana ha una sua identità complessiva che, per quanto variegata, si distingue per la sua specificità da quella di altre civiltà, con alcuni leitmotiv che risuonano simili nelle sue diverse tradizioni. In un convegno di 'indologi' però, si richiederebbe di non presupporre che gli ascoltatori conoscano il contesto del proprio oggetto di studio, e una introduzione per iniziare i profani, come suggerito alla fine del convegno, sarebbe auspicabile.   

Un'altra questione che sorge è: qual è lo scopo dello studio filologico? E' semplicemente il progredire della conoscenza, fine a se stessa, dei testi di un'antica civiltà o qualcosa d'altro? In ambito accademico, sembra non porsi mai il problema. I professori insegnano, aprendo orizzonti affascinanti, ma senza generalmente spiegare perché uno dovrebbe impegnarsi nello studio della loro materia. Eppure la questione andrebbe affrontata, non solo per ragioni esistenziali (qual è il senso vitale di questo studio) o pratiche (l'inserimento in un percorso professionale), ma anche per giustificare l'esistenza di una disciplina accademica, che rischia di non essere più sostenuta dallo Stato per mancanza di rilevanza economica e sociale o perché appare remota, priva di relazione con la cultura occidentale e con l'attualità. Probabilmente ogni indologo saprebbe cosa rispondere a questa questione. Il nostro interesse per la civiltà indiana è dovuto a qualche risonanza interna e consonanza che ci ha portato ad approfondirla e a trovarvi qualcosa di prezioso. Forse abbiamo pudore a dichiararlo, perché l'accademia richiede semplicemente che uno faccia 'scienza'. Eppure bisognerebbe esplicitare quale interesse abbia l'India antica per il mondo di oggi, quale messaggio universale, e a cosa mirino i nostri studi, che altrimenti possono apparire come un coacervo di astrusi problemi filologici che servono solo a pubblicare articoli su riviste specializzate. Le scienze umane hanno le loro radici nell'Umanesimo e nell'Idealismo, filosofie oggi poco di moda. E l'Orientalistica, pur essendo un aspetto dell'imperialismo europeo, era partita come il sogno di un nuovo Umanesimo (la Renaissance orientale), ma rischia di perdersi in uno storicismo positivistico che interessa a ben pochi. Spetta a noi della nuova generazione di indologi unire l'imprescindibile rigore filologico a una prospettiva di ampio respiro...