martedì 5 gennaio 2010

Sanscrito. Quella lingua perfetta che ha inventato "Avatar"

Sulla prima pagina pagina della cultura di ieri de "la Repubblica" è apparsa una presentazione del nuovo dizionario di sanscrito di cui ho parlato poco fa, con citazioni del Prof. Sani:
Come si evince dal titolo, si mostra l'attualità del sanscrito a partire dal titolo "Avatar" dell'ultimo kolossal di Cameron. In effetti 'Avatar' è una delle parole di origine sanscrita che ha avuto più fortuna. Già usata ampiamente nel francese colto per dire 'incarnazione, metamorfosi' (spesso riferito a concetti astratti), si è affermata recentemente nel mondo virtuale come identità fittizia, una sorta appunto di emanazione dell'individuo che agisce in rete. Ed ora c'è il titolo del film di fantascienza, in un contesto di incarnazione più concreta, di ingresso in un altro corpo.
Il sanscrito Ava-tāra- significa 'discesa' o 'apparizione' di una divinità. Ava- è una preposizione che significa 'via, giù', tāra- viene dal verbo tṝ- (tarati) 'attraversare, raggiungere una meta', ed esiste anche il verbo ava-tṝ- (avatarati) 'scendere in, discendere (come divinità), incarnarsi, arrivare a, fare la propria apparizione'.


Come è noto, il concetto si applica principalmente a Vishnu, il Preservatore, e ai suoi dieci Avatāra (nell'immagine a sinistra) che appaiono per difendere il Dharma, l'ordine cosmico-sociale, ripercorrendo le varie fasi della mitologia dei Purāṇa: dal Diluvio dove agisce Matsya, il pesce che salva il progenitore Manu dalle acque, fino all'apocalittico Kalki, guerriero su un cavallo bianco che pone fine all'età degenerata del Kali Yuga in cui ci troviamo, per reinstaurare il Satya Yuga, età della virtù. Gli Avatāra più venerati in India sono certamente Rāma figlio del re Daśaratha di Ayodhyā, a cui è legato l'epos del Rāmāyaṇa, e Krishna re degli Yādava, ben presente nel Mahābhārata, e che si manifesta nel pieno della sua natura divina nella Bhagavadgīta, il 'Canto del Beato' in cui espone ad Arjuna, prima della battaglia, i principi dello Yoga.
Si tratta di due personaggi probabilmente storici, il primo vissuto intorno al 2000 a.C. (epoca che corrisponde al passaggio tra Tretā e Dvāpara Yuga) e il secondo nel XV sec. a.C., quando possiamo situare la battaglia del Mahābhārata (al passaggio tra Dvāpara e Kali Yuga) e la scomparsa sotto il mare (documentata archeologicamente) di Dvārakā, la capitale di Krishna. Apparentemente, grandi eroi, esempi viventi del Dharma, vissuti in epoche cruciali, sono stati assunti come Avatāra. Persino il Buddha, Siddhārtha Gautama del clan Shakya, fondatore di un movimento spirituale fortemente osteggiato dai brahmani conservatori, è stato assunto come Avatāra di Vishnu nei Purāṇa, evidentemente per inglobarlo nel sistema brahmanico.
Ma anche in tempi più recenti sono stati riconosciuti degli Avatāra divini, come Chaitanya, maestro della Bhakti (devozione) vissuto in Bengala a cavallo tra XV e XVI secolo, punto di riferimento degli 'Hare Krishna', oppure Ramakrishna, importante maestro spirituale del XIX secolo (vedi
http://www.eng.vedanta.ru/library/prabuddha_bharata/ramakrishna_the_greatest_of_avataras_june04.php).
O anche il contemporaneo, e ben noto, Sathya Sai Baba (http://www2.cruzio.com/~lobsta/jgm-avatar.html).
Nel passaggio dall'India all'Occidente, il termine sembra essere passato da Dio all'uomo (o all'io): infatti se in India solo il Dio supremo, o comunque una divinità, può avere Avatāra, oggi nel mondo virtuale ognuno può creare i suoi Avatar...

D'altronde, un significato meno noto del termine sanscrito avatāra- si trova nei titoli di alcune opere, come il Madhyamakāvatāra di Chandrakīrti (maestro della scuola buddhista della Via di Mezzo), che viene tradotto "Introduzione alla Via di Mezzo", intendendo evidentemente avatāra- come 'introduzione, entrata', infatti l'opera vuole essere un commento al testo di Nāgārjuna sulla Via di Mezzo (tra eternalismo e nichilismo) (http://www.scribd.com/doc/24563026/Chandrakirti-Madhyamakavatara-commented).
O ancora un'altra opera della stessa scuola, il Bodhisattvachāryāvatāra di Shāntideva, "Introduzione alla pratica dell'essere del risveglio", più noto in ambito accademico come Bodhicāryāvatāra "Introduzione alla pratica del risveglio", trattato che spiega come sviluppare le qualità di un Bodhisattva, un aspirante al completo risveglio spirituale (una traduzione italiana a http://www.samantabhadra.org/articles.php?lng=it&pg=36).
Si tratta di due opere molto importanti nel curriculum di studi del Buddhismo tibetano, e insegnate e commentate anche in Occidente, anche se sulla base della traduzione tibetana invece che del testo sanscrito, benché comunque si usino le forme originali sanscrite per i titoli e per alcuni termini 'tecnici' (come Buddha, Bodhisattva, Bodhicitta...).
















1 commento:

  1. Ciao Giacomo, infatti stavo in questo momento per mandarti pure questo articolo della Repubblica. Eccellente questo che hai scritto al proposito.

    Phillip
    Pune

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