domenica 24 gennaio 2010

Mille sentenze indiane - Virtù - 2

710. Dall'acqua nasce il fango, e coll'acqua si deterge; dal cuore nasce la colpa, e col cuore si purifica.
712. Guarda rettamente colui che guarda alla donna altrui come alla propria madre, ai beni altrui come a una zolla di terra, a tutte le creature come a sé stesso.
715. Non aver procurato l'altrui dolore; non essersi inchinato ai malvagi; non aver abbandonato il sentiero dei buoni: sembra poca cosa, ed è molto.
718. Il virtuoso, anche piombato nella sventura, non perde il proprio carattere; la canfora, toccata dal fuoco, odora anche di più.
722. Come il latte è di un solo colore, per quanto di più colori sieno le vacche, così nei vari aspetti della virtù una sola è la verità suprema.

domenica 17 gennaio 2010

Mille sentenze indiane - Virtù

685. Non si faccia ad altri ciò che sarebbe sgradito a noi stessi: questa è, in compendio, la legge morale; ogni altra legge procede ad libitum.
686. Colui che si addolora vedendo creature addolorate o che si allieta vedendo creature liete, conosce a fondo la Legge.
690. Con grande sforzo si spinge un macigno in salita, con facilità si fa ruzzolare lungo il pendio di un monte; così è dell'animo nostro rispetto alla virtù e al peccato.
691. Non desiderare ciò che è d'altri; esser benevoli verso tutte le creature; aver fede nel frutto delle azioni - si operi avendo sempre in cuore questo triplice precetto.
709. Se tu porti il bastone, la testa rasa o la treccia, se dimori in una caverna, ai piedi di un albero, su di una rupe, se leggi i purâṇa o i Veda, il Siddhânta o i Tantra, tutto ciò non serve a niente, se non hai puro il cuore.

venerdì 15 gennaio 2010

Arancia, ovvero l'inclinazione dell'elefante


Oltre ai prestiti recenti come Avatar, è sorprendente quante parole di uso comune siano d'origine indiana (se non proprio sanscrita). Una di queste è arancia o arancio. Secondo il "Vocabolario etimologico della lingua italiana" di O. Pianigiani, viene dal basso latino arangia e aurantia, "accostato per etimologia popolare al lat. AURUM, oro: dall'arab. NARANGI =  pers. NARANG' e questo dal sscr. NÂGA-RANG'A, che propr. vale inclinazione dell'elefante ossia frutto favorito dagli elefanti. La N iniziale scambiata per l'articolo UN venne omessa come in Anchina per Nanchina. Dagli arabi la voce passò nella Spagna e da questa nelle altre lingue romanze."
Ora, in sanscrito nāgaraṅga- significa davvero 'arancio', nel senso dell'albero. Ed è vero che nāga- può indicare l'elefante, ma anche il serpente, alcune piante, il piombo, e altro ancora. E raṅga- viene sì dalla radice rañj-, che può voler dire 'essere affetto, eccitato, deliziato da', ma anche 'essere colorato, arrossarsi'. E infatti il primo significato di raṅga- è 'colore, tinta', poi 'luogo di pubblico divertimento, teatro, arena', ma che voglia dire 'inclinazione' non risulta. E non ho trovato nemmeno conferma che gli elefanti siano particolarmente inclini a mangiare arance. E allora, forse conviene percorrere altre strade. Il senso di 'colore' è molto verosimile considerato che il frutto dell'arancio si distingue prima di tutto per il suo colore così caratteristico e luminoso (tanto che, come già visto, in latino è stato deformato in aurantia, aurantium, e in francese diventa orange, sempre richiamando l'oro). Allora, 'l'albero che ha i frutti del colore del nāga', ma in che senso? Non certo nel senso dell'elefante. Forse del serpente?
E' vero che il 'Golden Tree Snake' in India presenta dei segni rossi-arancioni (http://en.wikipedia.org/wiki/Chrysopelea), ma sembra un po' poco. Tuttavia, abbiamo accennato che alcune piante sono chiamate nāga- (forse perché abitate da serpenti?) e in particolare  - osserva il dizionario di Monier-Williams - la Mesua Roxburghii e la Rottlera Tinctoria.


La prima (qui a sinistra), diffusa in India, Nepal e Shri Lanka, è detta anche nāgakesara-, tradotto in inglese 'Cobra's saffron', infatti i suoi fiori hanno molti pistilli di color giallo zafferrano, con petali bianchi come quelli del fiore dell'arancio
(http://www.flowersofindia.net/catalog/slides/Nag%20Kesar.html).
La seconda è una pianta più tipica del sud-est dell'India, ma come dice il nome, è usata per la tintura delle stoffe, dando un colore giallo dorato usato già dall'antichità per colorare gli abiti 'color zafferano' dei religiosi (http://www.griffindyeworks.com/store/dyes-natural-dyes-and-extracts-c-1_3/kamala-extract-p-57: l'esempio qui in basso a destra).

Il nome comune in India per questa tintura è kamala, che in sanscrito, secondo Monier-Williams, in un testo indica un'arancia. Non solo, kamalā (a volte pronunciato komala o komola) si trova in assamese, bengali e oriya per indicare l'arancia
(http://www.uni-graz.at/~katzer/engl/Citr_sin.html).
Questo potrebbe suggerire che in India il colore dell'arancia sia stato associato al colore dello 'zafferano del serpente' o della tinta kamala della Rottlera (detta anche 'orange kamala'
http://www.flickr.com/photos/91314344@N00/2642064030/ ), e quindi sia stato chiamato 'che ha il colore del(l'albero) Nāga': nāgaraṅga (probabilmente indicando prima il frutto che l'albero). Da questa forma, dovrebbe essere derivata una semplificata, nāraṅga-, ben attestata anche in sanscrito per indicare l'arancio, e ancora usata in hindi per il frutto, al femminile (nāraṅgī). Da questa forma di tipo pracrito (della lingua parlata) è sorta chiaramente quella persiana nārang, che si è trasmessa poi all'arabo nāranj, e da lì all'Europa, alla naranja spagnola e alla nostra arancia. Perciò, le illazioni su un'origine non indoaria (dravidica o altro) del termine appaiono ingiustificate; comunque non ci sono dubbi sull'origine indiana del nome, e pare certo che venga originariamente dall'India il frutto stesso, più precisamente dall'India nordorientale o sudorientale, dove diverse varietà sono state sfruttate da almeno 7000 anni (http://www.buzzle.com/articles/history-of-orange-fruit.html).

Per concludere, in questi giorni in cui le arance sono diventate, in Calabria, una sorta di 'pomi della discordia', la storia di questo nome e di come si è trasmesso dall'India insieme al frutto può farci ricordare come l'umanità sia unita da antichi vincoli, suggellati dall'universale amore per ciò che è buono, come la polpa dell'arancia, e bello, come il suo colore...






domenica 10 gennaio 2010

Mille sentenze indiane - Cupidigia

654. Tutta la gente va errando, salita sul carro del desiderio, che è aggiogato ai cavalli-sensi e spinto dall'auriga-cupidigia.
656. Tu non conosci il vero, o Cupidigia! sei un fanciullo difficile a contentare, un fuoco insaziabile; né distingui tra ciò che è agevole e ciò che è malagevole ad ottenere.
657. Se colui che aspira alla redenzione provasse la centesima parte delle pene che sopporta questo stolto per l'avidità di ricchezza, sarebbe già redento.
660. Il volto si copre di rughe, il capo è segnato di canizie, le membra si afflosciano... Sola la cupidigia resta sempre giovane.
661. Te, ventre, io lodo, poiché sei pur soddisfatto di qualche legume; ma non te, o cuore maledetto, ché non sei sazio nemmeno di cento e cento desideri!

 

martedì 5 gennaio 2010

Sanscrito. Quella lingua perfetta che ha inventato "Avatar"

Sulla prima pagina pagina della cultura di ieri de "la Repubblica" è apparsa una presentazione del nuovo dizionario di sanscrito di cui ho parlato poco fa, con citazioni del Prof. Sani:
Come si evince dal titolo, si mostra l'attualità del sanscrito a partire dal titolo "Avatar" dell'ultimo kolossal di Cameron. In effetti 'Avatar' è una delle parole di origine sanscrita che ha avuto più fortuna. Già usata ampiamente nel francese colto per dire 'incarnazione, metamorfosi' (spesso riferito a concetti astratti), si è affermata recentemente nel mondo virtuale come identità fittizia, una sorta appunto di emanazione dell'individuo che agisce in rete. Ed ora c'è il titolo del film di fantascienza, in un contesto di incarnazione più concreta, di ingresso in un altro corpo.
Il sanscrito Ava-tāra- significa 'discesa' o 'apparizione' di una divinità. Ava- è una preposizione che significa 'via, giù', tāra- viene dal verbo tṝ- (tarati) 'attraversare, raggiungere una meta', ed esiste anche il verbo ava-tṝ- (avatarati) 'scendere in, discendere (come divinità), incarnarsi, arrivare a, fare la propria apparizione'.


Come è noto, il concetto si applica principalmente a Vishnu, il Preservatore, e ai suoi dieci Avatāra (nell'immagine a sinistra) che appaiono per difendere il Dharma, l'ordine cosmico-sociale, ripercorrendo le varie fasi della mitologia dei Purāṇa: dal Diluvio dove agisce Matsya, il pesce che salva il progenitore Manu dalle acque, fino all'apocalittico Kalki, guerriero su un cavallo bianco che pone fine all'età degenerata del Kali Yuga in cui ci troviamo, per reinstaurare il Satya Yuga, età della virtù. Gli Avatāra più venerati in India sono certamente Rāma figlio del re Daśaratha di Ayodhyā, a cui è legato l'epos del Rāmāyaṇa, e Krishna re degli Yādava, ben presente nel Mahābhārata, e che si manifesta nel pieno della sua natura divina nella Bhagavadgīta, il 'Canto del Beato' in cui espone ad Arjuna, prima della battaglia, i principi dello Yoga.
Si tratta di due personaggi probabilmente storici, il primo vissuto intorno al 2000 a.C. (epoca che corrisponde al passaggio tra Tretā e Dvāpara Yuga) e il secondo nel XV sec. a.C., quando possiamo situare la battaglia del Mahābhārata (al passaggio tra Dvāpara e Kali Yuga) e la scomparsa sotto il mare (documentata archeologicamente) di Dvārakā, la capitale di Krishna. Apparentemente, grandi eroi, esempi viventi del Dharma, vissuti in epoche cruciali, sono stati assunti come Avatāra. Persino il Buddha, Siddhārtha Gautama del clan Shakya, fondatore di un movimento spirituale fortemente osteggiato dai brahmani conservatori, è stato assunto come Avatāra di Vishnu nei Purāṇa, evidentemente per inglobarlo nel sistema brahmanico.
Ma anche in tempi più recenti sono stati riconosciuti degli Avatāra divini, come Chaitanya, maestro della Bhakti (devozione) vissuto in Bengala a cavallo tra XV e XVI secolo, punto di riferimento degli 'Hare Krishna', oppure Ramakrishna, importante maestro spirituale del XIX secolo (vedi
http://www.eng.vedanta.ru/library/prabuddha_bharata/ramakrishna_the_greatest_of_avataras_june04.php).
O anche il contemporaneo, e ben noto, Sathya Sai Baba (http://www2.cruzio.com/~lobsta/jgm-avatar.html).
Nel passaggio dall'India all'Occidente, il termine sembra essere passato da Dio all'uomo (o all'io): infatti se in India solo il Dio supremo, o comunque una divinità, può avere Avatāra, oggi nel mondo virtuale ognuno può creare i suoi Avatar...

D'altronde, un significato meno noto del termine sanscrito avatāra- si trova nei titoli di alcune opere, come il Madhyamakāvatāra di Chandrakīrti (maestro della scuola buddhista della Via di Mezzo), che viene tradotto "Introduzione alla Via di Mezzo", intendendo evidentemente avatāra- come 'introduzione, entrata', infatti l'opera vuole essere un commento al testo di Nāgārjuna sulla Via di Mezzo (tra eternalismo e nichilismo) (http://www.scribd.com/doc/24563026/Chandrakirti-Madhyamakavatara-commented).
O ancora un'altra opera della stessa scuola, il Bodhisattvachāryāvatāra di Shāntideva, "Introduzione alla pratica dell'essere del risveglio", più noto in ambito accademico come Bodhicāryāvatāra "Introduzione alla pratica del risveglio", trattato che spiega come sviluppare le qualità di un Bodhisattva, un aspirante al completo risveglio spirituale (una traduzione italiana a http://www.samantabhadra.org/articles.php?lng=it&pg=36).
Si tratta di due opere molto importanti nel curriculum di studi del Buddhismo tibetano, e insegnate e commentate anche in Occidente, anche se sulla base della traduzione tibetana invece che del testo sanscrito, benché comunque si usino le forme originali sanscrite per i titoli e per alcuni termini 'tecnici' (come Buddha, Bodhisattva, Bodhicitta...).
















venerdì 1 gennaio 2010

Mille sentenze indiane - La speranza


648. Colui, che è stato fatto schiavo dalla speranza, è schiavo di tutti gli uomini; colui che ha fatto sua schiava la speranza, fa suo schiavo tutto il mondo.

651. Una festa, quando già si celebra, non è così bella come una festa imminente; la luna, nel levarsi a sera, risplende ben altrimenti che nell'albeggiare.

652. Meravigliosa catena è la speranza, dalla quale legati, gli uomini corrono innanzi; sciolti, se ne stanno fermi come storpi.

653. Grande è la montagna, più grande il mare, più del mare è grande il cielo, più del cielo il brahma, l'anima del mondo; più ancora del brahma, la speranza.